Si sa, la Fontana di Trevi è la più bella fontana del mondo. Tutti i turisti vengono a gettare una monetina, spalle alla Fontana, convinti o almeno speranzosi che quel rituale garantisca un ritorno a Roma.
C’è un’altra poetica usanza legata a questo posto magico, meno conosciuta, quella di far bere dalla ragazza innamorata al proprio fidanzato l’acqua di Trevi in un bicchiere, che va poi ritualmente rotto.
Tutto questo a significare che il ragazzo non si potrà più scordare di lei e che l’Amore durerà per sempre.
Tutti sanno che la Fontana di Trevi è opera di Nicola Salvi, che però non poté vederla finita. La sua opera fu portata a termine con qualche modifica dal Bracci che la terminò nel 1762, con l’inaugurazione solenne di Papa Clemente XIII. Quello che però pochi sanno è che il Salvi era aduso frequentare un barbiere, alla sinistra della fontana. Questi, come tutti i nostri amati incorreggibili barbieri e parrucchieri, sapeva tutto, capiva di tutto, criticava tutto. Dal loro privilegiato punto di osservazione, sulle nostre nuche fulve, ispide o bionde reclinanti che siano, orgogliose o frustrate, sincere o sempre più spesso camuffate, ritengono di capire i nostri pensieri, di prevenirli, di migliorarli, di addomesticarli come i capelli. Del resto, in quei momenti siamo indifesi e imploriamo affinché il risultato sia il migliore possibile, anche perché il taglio dei capelli assume, nella storia dell’umanità, un momento liberatorio e di rinnovamento e ancor più in ambito simbolico un’affermazione di sembianza e di rassicurazione sulla nostra presenza.
Questo settecentesco barbiere, non sappiamo per quali cognizioni architettoniche, riteneva che il Salvi non facesse bene il proprio lavoro e che la Fontana venisse su male. Perché poi Salvi continuasse a frequentarlo non si sa, forse per comodità della vicinanza al cantiere, forse per il masochismo di un’intima incertezza, forse era veramente un gran barbiere dalla mano ferma e valente. Sta di fatto che, pur usando pazienza Salvi, a opera finita, gliela fece pagare, costruendo il cosiddetto “asso di coppe”. Si tratta di un grande vaso ornamentale piazzato proprio in quel preciso punto dove rendeva (e rende, anche se adesso c’è al n° 85 un’altra attività merceologica) impossibile la vista della Fontana dalla Barberia. Nulla sappiamo della sorpresa del barbiere, eterno stereotipo artigiano che, comunque, incassa come colpisce e che alla fine probabilmente apprezzò il capolavoro, anche se per vederlo doveva uscire dal negozio.
Ma Salvi aveva anche qualche altro “sassolino” da levarsi dalle scarpe e ricorse all’allegoria con la Sua arte e in questo vezzo, tanto più, l’artista si confonde con l’artigiano. Non si sa perché e qual sia la metafora, anche se si può intuire, ma dallo stesso lato della Fontana sotto l’asso di coppe c’è poggiato in alto un grosso cappello vescovile, in travertino, alla foggia dell’epoca. Un cappello da prete, buttato lì, come a dire “toglietevi anche voi, preti padroni, il cappello davanti all’Arte”. Probabilmente i rapporti con i committenti non erano stati facili. Ma cos’è facile, nel Settecento, come nel duemila? La metafora è una consigliabile via d’uscita, basta capirla.
Il Welfare bilaterale artigiano, eroga prestazioni e servizi che vanno dal sostegno alle aziende in crisi e al reddito dei lavoratori dipendenti in costanza di rapporto, a interventi a favore delle imprese e del loro sviluppo, all’assistenza sanitaria integrativa e a corsi di formazione professionale, fino alla costituzione di una rete di rappresentanti della sicurezza territoriale.